Dome Bulfaro

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Poesia del nostro tempo 01 1

Intervista di Silvia Rosa su "Poesia del nostro tempo" 27 maggio 2020

 

Poesia e cura, poesia e pratica terapeutica: un incontro fertile che è diventato scuola di pensiero e metodo. Quali sono i cardini della Poetry Therapy, le sue origini, i suoi presupposti teorici, i suoi possibili impieghi?

La poesia può rappresentare per ognuno di noi la via privilegiata per conquistare una maggiore consapevolezza di sé e un maggiore stato di benessere, in tutte le fasi della nostra crescita e della nostra vita. Da quando siamo ancora nel grembo fino alla morte, la poesia ci può venire in aiuto e possiamo impiegarla come forma di auto-aiuto. La poesiaterapia nella sua ricerca e applicazione, si occupa in buona sostanza di questo processo, secondo teorie e pratiche scientificamente provate e riproducibili, ma che, come tutte le scienze della cura, apre continuamente a nuovi scenari e ad antichi saperi che vengono riscoperti o ritrovano linfa in nuove forme contemporanee.

Il primo a utilizzare il termine Poetry therapy è stato il poeta, avvocato e farmacista Eli Griefer (Schloss, 1976), il quale prestò servizio volontario presso il Creedmoor State Hospital di New York. Griefer incontrò Jack J. Leedy, psichiatra, e insieme curarono un gruppo di pazienti, impiegando metodi di poesiaterapia. I caratteri principali di questa pratica vengono codificati sia da Griefer nel pamphlet Principles of Poetry Therapy (1963), sia più avanti dallo stesso Leedy nella raccolta Poetry Therapy: The Use of Poetry in the Treatment of Emotional Disorders (1969). Il riconoscimento istituzionale della poesiaterapia è maturato a partire dello stesso anno con la creazione dell’APT (Association of Poetry Therapy) fino al suo incorporamento, nel 1981, nella NAPT (The National Association for Poetry Therapy). Da quell’anno ad oggi le conferenze si sono svolte con cadenza annuale, in diverse città degli Stati Uniti, sviluppandosi come vere e proprie reunion di specialisti, accoglienti al pari di quando ci si ritrova in famiglia. La Napt infatti è un’associazione interdisciplinare di professionisti dell’aiuto e auto-aiuto che, per dirla con Nicholas Mazza – ex-Presidente della NAPT e Direttore del Journal of Poetry Therapy –, dove i “colleghi” non si rapportano fra loro pensando che: “il mio cane è più grosso del tuo cane. C’è una vera cura e condivisione di esperienze pratiche, ricerche e riflessioni personali.”

All’inizio la poesiaterapia è stata classificata come una ramificazione della biblioterapia, poi si è compreso che ha delle specifiche proprie, tant’è che oggi è considerata come una delle artiterapie, anche se a differenza delle principali artiterapie, è ancora poco conosciuta e diffusa, tantopiù in Italia dove siamo indietro di circa un quarantennio rispetto agli Stati Uniti, nazione in cui è maggiormente sviluppata. La poesiaterapia come la musicoterapia, la drammaterapia, l’arteterapia, la danzaterapia, agisce in modo monoterapeutico o come integrazione ad altre terapie, come aiuto e supporto, individuale o di gruppo, nella guarigione o autoguarigione da problemi sostanzialmente emotivi, mentali, spirituali. La poesia, a differenza di tutte le altre artiterapie, è lo strumento principale della poetry therapy per prendersi cura del benessere di una persona (ma anche più in generale della Natura). Questo strumento/canale privilegiato viene adottato in tutte le sue potenzialità prosodiche, retoriche, simboliche e immaginifiche, in tutte le sue forme letterarie (sonetto, haiku, ballata, filastrocca, salmi, ninna nanna…) e in tutte le sue modalità ricettive ed espressive (ascolto, lettura, reading, composizione, confronto a partire da una poesia/canzone).

È importante comprendere che la poesiaterapia non va considerata come un trattamento riservato solo a persone con evidenti disturbi emotivi che hanno necessità di un supporto psicologico. Ne è solo applicabile a pazienti psicotici, schizofrenici ospedalizzati, psiconeurotici da curare in un centro di salute mentale. La poetry therapy può essere impiegata con qualunque gruppo di auto-aiuto, in una qualsiasi scuola di ordine e grado in cui sono presenti disagi e disturbi di varia natura e misura. In sintesi dovunque siano presenti disarmonie interiori che hanno bisogno di ritrovare equilibrio, all’interno di un cammino di consapevolezza, che permetta a singole persone, coppie, gruppi di persone, persino intere comunità, di esplorarsi in profondità tanto da accedere alla parte più inabissata di loro stessi. Da questo abisso, la poesia, interpretata in chiave psicanalitica e allegorica, col suo dire-canto che risintonizza il ritmo e la musica individuali con il ritmo e la musica universali, può permetterci di completare il nostro processo di risalita e riarmonizzazione.

Il primo febbraio di quest’anno è stata inaugurata la rivista “Poetry Therapy Italia” e lo stesso giorno è stata aperta anche PoesiaPresente LAB, la Scuola di poesia sede dell’associazione Mille Gru, con la finalità di “aiutare a esprimere e a coltivare fino a piena fioritura, in armonia, la parte più delicata e potente dell’uomo e del mondo che lo ospita, quella poetica.” Qual è stato il percorso che ha condotto te e il tuo gruppo di ricerca a dare vita a queste realtà? Di che cosa si tratta, nello specifico? Quali contributi e attività sono destinate ad accogliere? 

Sono nella scuola da quando avevo 6 anni. Dei miei 48 anni ne ho trascorsi nella scuola 18 da studente e 24 da insegnante. La maggior parte delle scuole non sono mai state votate alla conoscenza di sé. Tantomeno la scuola-azienda pubblica e privata degli ultimi 10 anni, diventata tanto professionalizzante quanto disumanizzante.

PoesiaPresente LAB nasce per essere una scuola distante da questo modello, sia per la materia che la illumina, la poesia (scritta, performata e soprattutto impiegata a fini terapeutici), sia perché intende spostare la centratura della vita di una persona dalla formazione professionale alla cura poetica della persona, concepita nella sua totalità, sentita come parte integrata della Natura.

La totale impreparazione dei nostri studenti e di noi adulti rispetto alla gestione del dolore, delle sconfitte, dei conflitti, dei piccoli e grandi lutti, dei limiti, della fragilità, è evidente eppure, nonostante il Covid-19, sogniamo prima di tutto di tornare alla precedente normalità anziché sognare una nuova e più consapevole normalità, dove per una volta l’uomo potrebbe ricollocarsi non più al centro dell’universo ma a latere, ponendosi, in tutta umiltà, al servizio della Natura.

Poesiapresente LAB è una scuola dove vogliamo:

  • erogare servizi alla persona e alla Natura
  • mettersi, con buona predisposizione d’animo, al servizio degli altri oltre che di sé.
  • affermare che la cura della salute fisica, emotiva, psicologica e spirituale, ha pari importanza della formazione culturale e professionale.
  • affermare che la poesia è il nutrimento e lo strumento ideale per raggiungere l’armonia fra le parti.
  • affermare che la presa in cura della Natura sia parte integrante della presa in cura di se stessi.

La rivista Poetry Therapy Italia è il punto di arrivo di un processo che ho spiegato nell’editoriale del numero zero, testo in cui già si evidenziavano delle criticità poi palesate con la tempesta del Coronavirus:

“[…] La rivista «Poetry Therapy Italia» e la scuola PoesiaPresente LAB nascono simbolicamente insieme perché unite dalla stessa mission e dalle stesse motivazioni: aiutare a esprimere e a coltivare fino a piena fioritura, in armonia, la parte più delicata e potente dell’uomo e del mondo che lo ospita, quella poetica. Siamo consapevoli che il numero di persone che versa in stato di malessere, o che lo attraversa nelle sue infinite forme e gamme di dolore, negli ultimi anni è aumentato in maniera esponenziale. Ne abbiamo chiara percezione perché lo misuriamo in presa diretta, giorno per giorno, dove abitiamo, dove lavoriamo, con chi condividiamo la nostra vita. E l’aumento di questo malessere diffuso mostra quanto siamo impreparati ad affrontarlo e trasformarlo. Ci stiamo scoprendo indifesi e disarmati. Sappiamo che la poesia nella cultura di molti popoli antichi era considerata una potente arma di difesa e cura catartica individuale e collettiva. Sappiamo che la poesia ha in sé un potere terapeutico e taumaturgico che può aiutare chi è in difficoltà nel superare il proprio stato di malessere e dolore. Ci sono numerose figure professionali che si occupano di salute mentale, emotiva, fisica e spirituale, che potrebbero disporre con maggiore consapevolezza delle potenzialità immunogene proprie della poesia. Gli stessi poeti, che spesso “ricompongono il proprio equilibrio” scrivendo o dicendo poesia, sono chiamati in questa fase depressiva a fare di più per sé e per gli altri. È tempo che il volto terapeutico intrinseco nella poesia torni a essere mostrato e impiegato in tutta la sua potenzialità e bellezza. La nascita della rivista «Poetry Therapy Italia», unitamente a quella della Scuola PoesiaPresente LAB, vuole essere una risposta concreta a questa sommersa richiesta d’aiuto. Rappresenta per il nostro gruppo di ricerca una svolta, da quando nel 2009 abbiamo avviato la prima pratica di poetry therapy all’ospedale “Alessandro Manzoni” di Lecco, ma, soprattutto, siamo convinti che segni una svolta nel percorso di divulgazione e riconoscimento istituzionale anche in Italia, al pari delle altre arti terapie, delle teorie e delle pratiche di poetry therapy.”

Sono state già avviate da tempo, in Italia, esperienze che hanno utilizzato la poesia come forma di cura/terapia: puoi raccontarci qualcosa in merito a quelle che ti hanno visto impegnato in prima persona?

Il mio percorso ufficiale di poetry therapy con Mille Gru è iniziato con “Leggere, con cura” (dal 2009), il nostro primo progetto di poesiaterapia, sviluppato in prima persona col poeta-psicologo Ivan Sirtori per i degenti e l’utenza dell’ospedale “A. Manzoni” di Lecco. Progetto che poi abbiamo sviluppato con Patrizia Gioia anche all’Ospedale Maggiore di Milano e col poeta italo-svizzero Fabiano Alborghetti, in tutti gli enti ospedalieri di Lugano. Il progetto in sintesi si svolge così: in accordo con i primari d’ospedale di alcuni reparti distribuiamo, tramite gli infermieri o i volontari o in prima persona, una poesia-cartolina al giorno per sette giorni, (scelta o composta appositamente) lasciando che l’ultima poesia-cartolina fosse composta dal degente stesso. Le cartoline sono collocate anche negli spazi comuni degli ospedali, come la reception o sale d’attesa. In una edizione di “Leggere, con cura” presso l’ospedale di Lecco gli ingrandimenti di queste cartoline-terapeutiche sono diventati quadri d’arredo permanenti dell’ospedale.

Il momento formativo più intenso per me corrisponde all’esperienza con i malati terminali e le loro famiglie che si è sviluppata dal 2012 al 2016 in tre tappe, presso l’hospice di Monza (2012/2013) diretto dal Dottor Carlo Cacioppo. Nel piccolo ruolo di volontario-poeta, solo quando il paziente era in grado di darmi il permesso, ho provato ad accompagnare alla morte i malati terminali, a cui restavano dai pochi giorni alle poche settimane di vita, leggendo loro delle poesie pacificatrici perlopiù laiche. Quelle parole risultavano ogni volta di grande conforto per entrambi. Da quella esperienza è nata poi la produzione da parte di Mille Gru dello spettacolo Pagina Quaranta (2013), da me scritto e messo in scena dal regista Enrico Roveris, finalizzato a restituire la massima dignità a tutto ciò che rappresenta un Hospice, in particolare quello di Monza, che a differenza della maggior parte degli Hospice, vive di vita propria perché non inglobato in una struttura ospedaliera.

La terza e ultima tappa di formazione sul campo in questo ambito è maturata con il progetto “Chi trova un amico…” (2016). Gli enti coinvolti erano la Fondazione Don Gnocchi, l’Hospice di Santa Maria delle Grazie di Monza, l’Associazione A.M.A., Brianza biblioteche, biblioteche del Comune di Monza. Siamo intervenuti con un staff completo di psicologo, medici, artiterapeuti, educatori, bibliotecari, volontari con due obiettivi: 1- “aiutare un gruppo di bambini e di ragazzi, con relativi genitori e/o parenti ad elaborare e a superare il dolore dato dalla perdita di una persona importante”; 2- “Contribuire a modificare la cultura relativa al tema della morte proponendo messaggi che ristabiliscano la dimensione naturale della stessa in opposizione ad una cultura che tende a negare questo aspetto”.

In un momento delicato come quello che stiamo vivendo, ancora scossi dall’emergenza sanitaria e dal lungo periodo di confinamento al centro delle nostre fragilità, quali parole ci possono venire in aiuto? Hai qualche suggerimento rispetto a testi / poeti che potrebbero prendersi cura della parte più vulnerabile di noi, in questo frangente? In che modo ognuna e ognuno di noi può “praticare” la poesia come forma di cura, in modo autonomo?

Le problematiche sono così vaste e diversificate che indicare delle parole che sappiano aiutare tutti è impossibile. Bisogna tenere conto delle diverse esigenze di genere e di età: bambini,  adolescenti, adulti, anziani, ognuno sta vivendo e rielaborando questo tempo di pandemia, a proprio modo e nella propria misura. Per alcuni prevale la rabbia, per altri la tristezza, per altri ancora la depressione, l’ansia, il dolore per la perdita, l’essere stati abbandonati o il senso di colpa per aver abbandonato, la paura del presente e del futuro, la paura di cambiare, lo stress… c’è e ci sarà bisogno di un supporto fisico, emotivo, psicologico e spirituale, individuali, di gruppo e di massa, che richiederanno uno sforzo immane e al contempo meticoloso da parte di tutti noi.

In generale suggerisco di cercare cura nei classici. E anch’io per questa risposta mi affido al manuale Poetry Therapy: teoria e pratica (Mille Gru, 2019), un classico per eccellenza della poesiaterapia che abbiamo appena pubblicato e ho tradotto insieme a Sara Rossetti. In questo libro l’autore e pioniere Nicholas Mazza ha incluso un’antologia di poesie che da decenni risultano particolarmente efficaci in percorsi di aiuto e autoguarigione. Amy Lowell in “Petali” scrive: “Restiamo soli / Mentre gli altri si affrettano / Il fiore è stato cavato fuori, anche se la sua fragranza ancora persiste”. Emily Dickinson nella poesia “Speranza” dice che: “La speranza è quella cosa con le piume – / che si posa sopra l’anima – / canta la melodia senza parole – / e non si ferma mai – proprio mai.

Rilke, come mi ha fatto notare in questi giorni la poetessa Patrizia Gioia, nella poesia del “Torso arcaico di Apollo” scrive: E questa pietra sfigurata e tozza / vedresti sotto il diafano architrave delle spalle, / e non scintillerebbe come pelle di belva, / e non eromperebbe da ogni orlo come un astro: / perché là non c’è punto che non veda / te, la tua vita. Tu devi mutarla. Questo tempo di pandemia è come questo torso mutilato di Apollo che ci impone da ogni suo angolo di cambiare la nostra vita. Dobbiamo cambiare, radicalmente. Purtroppo quello che vedo fa comprendere che non cambieremo. Non quanto dovremmo. Nei classici troviamo quelle parole che sanno dare forma al nostro dolore. Le poesie de Il dolore e de Il Porto sepolto di Giuseppe Ungaretti in questo momento possono restituire una comunanza nel dolore, aiutare a sciogliere il senso di rimorso di chi non ha potuto stare vicino ai propri cari nel momento del bisogno. Abbiamo la necessità di attivare quelle risorse segrete, inimmaginate da noi stessi, che invece abbiamo e che la poesia è in grado, anche con una sola parola, di risvegliare.

Date parole al dolore” (Shakespeare, Macbeth, Atto IV scena III). Non importa in quale forma lo esprimiamo ma diamogli parola, altrimenti come sapevano molto bene gli antichi sciamani, il dolore ben presto diventerà acqua stagna, palude e sarà foriero di malattie. Impariamo dal nostro respiro. Agiamo, riposiamo; ascoltiamo, diciamo, stiamo nel respiro nostro e dell’universo. Per riportare pace dentro e fuori di noi ci vengono in soccorso versi di Ungaretti: “Cessate di uccidere i morti / non gridate più, non gridate / se li volete ancora udire,”. Dobbiamo riportare silenzio fuori e dentro di noi. Il prendersi cura inizia sempre da l’ascoltarsi e l’ascoltare. Rispetto a dottori e infermieri, per citare le categorie più esposte al Covid-19, possiamo poco, ma forse anche nel rispetto del loro sacrificio, come la poesia ci insegna, dobbiamo e possiamo tutti noi, seppur con poco, fare molto.

Come Mille Gru abbiamo pensato di avviare per ora due supporti poetici a distanza: nel primo caso si tratta di un concorso di poesiaterapia “Anticorpi poetici” che ha come principali finalità quella di spronare le persone ad esprimere e condividere il proprio dolore e quella di far sì che i versi attivino, come dicevo, un mutuo-aiuto. Il secondo servizio indiretto è legato a un altro aspetto della poetry therapy: è importante conoscere quali poesie risultano più adatte per un uso terapeutico, per quale disagio, malattia, trauma, qual è il miglior modo di impiegarle in percorsi individuali o di gruppo. Per questa ragione stiamo mettendo a punto da qualche settimana la costruzione di un’antologia di poesie utili in questo tempo di pandemia, per affrontare attacchi di panico, paura, rabbia, depressione, scoramento, perdita di speranza, stress dovuto all’isolamento forzato, alla mancata improvvisa entrata dello stipendio, o peggio per aver perso il lavoro, fino al dolore per la perdita di un proprio caro, che non abbiamo potuto accudire e onorare con una sepoltura degna. In un passaggio del suo manuale Nicholas Mazza dice: “Ho imparato da Ted Bowman, mio amico e collega alla NAPT, che forse la perdita più rilevante è la “perdita del sogno”, la perdita di come immaginavamo le nostre vite sarebbero state nel futuro”.

Come percorso di autoguarigione potrei consigliare qualcosa di semplice: tenere un diario quotidiano di tutte le esperienze negative e positive vissute in questo periodo, rilanciando in positivo sul proprio futuro personale e collettivo. La scrittura quotidiana tritura il dolore. La poesia, in particolare, ha la forza di polverizzarlo. La scrittura poetica quotidiana permette di rimettersi in relazione con se stessi e di non ritrovarsi improvvisamente con una montagna di dolore da affrontare tutta insieme. Scrivete del vostro futuro, sognatelo, dategli forma con le parole. Il coronavirus passerà. “Anche questa passerà”, come recita una leggenda persiana,  mentre noi saremo ancora qui, migliori di prima. Non dimentichiamo ciò che ha scritto il poeta inglese William Ernest Hanley (1849-1903), sul letto di un ospedale, nonostante a 23 anni gli avessero amputato una gamba. Nella quartina di chiusura del suo Invictus (ossia “mai sconfitto”) scrive:

“Non importa quanto stretto sia il cancello,
quanto carica di punizioni la vita,
io sono il padrone del mio destino:
sono il capitano della mia anima”.

(tratto da Poetry therapy. Teoria e pratica, Nicholas Mazza, Mille Gru 2019)